Ho conosciuto Sebastiano Filocamo su Facebook, mezzo che devo ringraziare perché negli anni mi ha concesso di scoprire talenti e personaggi che altrimenti non avrei potuto incontrare, come in questo caso. All’inizio una conversazione simpatica, la curiosità sul suo lavoro di attore, i complimenti doverosi davanti a qualche immagine, ad un video, pian piano ne ho scoperto l’umanità e l’intensità, decidendo di avventurarmi in una vera e propria intervista, quando ho saputo che un film che lo vedeva protagonista era in uscita (“Tutti i rumori del mare” diretto da Federico Brugia, al cinema dal 24 agosto). Sebastiano è intelligente, spiritoso e profondo, ha opinioni precise sulla sua professione e sul momento storico che stiamo attraversando, nelle sue risposte mi ha regalato la possibilità di aprire una porta su un universo dalle molteplici sfaccettature e mi ha involontariamente spiegato perché da subito l’ho sentito vicino. Il nome e l’arte di Sebastiano sono infatti legate ad alcune opere che mi hanno segnato negli anni, dal drammaticissimo “Bent”, che tanto insegna sull’amore e sulla natura umana, pur raccontando una storia immersa nelle brutture infernali del nazismo, a “Naja”, la cui trasposizione cinematografica ha influito non poco sulle mie scelte di vita. Ritrovare certi titoli e nomi nel racconto di Sebastiano mi ha davvero colpito tanto. E sono sicuro che il vulcanico e istrionico attore incuriosirà anche voi. Che dite: lo andiamo anche a vedere al cinema? Per ora…questa è la mia intervista a Sebastiano Filocamo.
Sebastiano Filocamo photographed by Efrem Raimondi
All rights reserved © Efrem Raimondi
Come hai iniziato? Come ti sei ritrovato a fare l’attore? In te ha sempre bruciato il fuoco sacro dell’arte oppure è stata una scoperta graduale? Quando hai capito che avresti fatto l’attore ‘da grande’?
Ho iniziato negli anni del liceo con workshop teatrali, poi in giro per l’Europa con vari maestri della scena sperimentale da Susan Strasberg ai danzatori di Pina Bausch. Poi tante strade da scoprire (il giornalismo, la musica, la radio), infine l’approdo in Accademia a Milano, non conclusa perché ho iniziato a lavorare, prima dell’esame finale, in “Nemico di Classe”, spettacolo che resta un cult nel panorama teatrale italiano. Interpreti, oltre me, erano tra gli altri Paolo Rossi, Claudio Bisio, Antonio Catania, diretti da Elio de Capitani per il Teatro dell’Elfo. Ho iniziato per vincere la timidezza e la voglia di riscatto rispetto alla condizione di vita che vivevo in quel momento. C’è sempre stato in me il bisogno di evolvermi, di cambiare le cose, di sperimentare nuovi linguaggi, di non rimanere troppo in un posto e tutto questo affidandomi unicamente alle mie forze e al mio lavoro senza appoggiarmi a caste, gruppi, tessere o salotti. Poi i vari incontri con registi e attori di grande spessore umano e artistico da Vincent Gallo a Eli Wallach, da Valeria Golino a Michele Placido, da Francesca Archibugi a Marco Bellocchio mi hanno fatto “comprendere” e crescere, dandomi sempre la conferma che avevo fatto “la scelta giusta”. Questo mestiere è ancora un viaggio per conoscermi e conoscere, mi ha allargato il pensiero, la visione dell’altro e di me stesso. Ho sempre lavorato per il piacere che può darti questo lavoro che permette di esplorare psicologie non tue, di essere qualcun altro. Non ho mai fatto questo mestiere per esibizionismo o ricerca di popolarità o per denaro. Il riconoscimento economico è un diritto che pretendo e a cui non si deve rinunciare. Fare l’attore è un mestiere come molti altri e va rispettato. Il problema è che si sta sempre di più smarrendo la professionalità. Tutti possono fare tutto: ce l’ha insegnato la televisione.
Ma non è così e tutti quanti ora soffriamo di questo malcostume. Quando leggo annunci che cercano attori anche non professionisti mi deprimo. Cercheresti mai un avvocato, un idraulico o un medico non professionista?
Non so se chiamarlo fuoco dell’arte o meno: io sento che questo lavoro è il mio amante. Per lui ho anche rinunciato a molto e senza rimpianti, anche a costruirmi una famiglia, perché il lavoro dell’attore, per me, è come una droga che ti avvolge e ti fa sentire libero e insieme posseduto, lontano, egoista, ma anche pronto a darsi a chi ha bisogno, migliore e insicuro. Non ricordo di essermi detto da grande faccio l’attore. Che io ricordi è sempre stata una necessaria condizione di vita.
Riguardando indietro, quali pensi siano stati i momenti più significativi delle tua carriera? Da un punto di vista di ‘riconoscibilità’ pubblica e da un punto di vista personale. Quali i ruoli che ti hanno fatto crescere?
“Nemico di Classe” ha segnato una svolta nella mia vita artistica e personale, ero poco più che ventenne e la gente mi fermava per strada . Era un continuo attacco di panico! Sapevo già allora che non avrei voluto, né saputo fare, la carriera di Paolo o Claudio perché nasco interprete e fare il comico non mi è mai interessato. Pur sapendo di avere tempi comici – come ho mostrato in molti spettacoli – rifiutai la proposta di “Comedians” di Gabriele Salvatores e offerte dalla televisione che mi avrebbero voluto cabarettista. Mi interessava parlare di problemi che sentivo più importanti, così, dopo “Delitto e Castigo” per la regia del maestro Liubjmov, accettai un lavoro che nell’85 parlava di lager, omosessualità e diritti. Era “Bent” con Luca Zingaretti. Ogni ruolo sono tanti tatuaggi e tutti sono stati disegnati da dolore e bellezza. Ho quasi sempre scelto le cose che volevo fare e quindi ho sempre dei gran bei ricordi, che non significa che tutto sia sempre andato liscio. Non sono mai stato il classico attore da compagnia stabile, me ne accorsi fin dall’inizio. Seguo spesso il mio istinto e poche volte sbaglio. Ti potrei raccontare aneddoti esilaranti, ma staremmo qui ore. Sono un timido vero per cui finito il mio lavoro a volte non uscivo neanche dall’ingresso degli artisti, l’attore dovrebbe saper recitare ed essere riconosciuto solo per questo. Purtroppo, tutto si è capovolto. Persone che poi si rivelano di dubbia statura morale acquisiscono incarichi politici importanti, con Instagram tutti sono fotografi, cabarettisti diventano scrittori e i cani diventano attori. Ah, dimenticavo, io non sono Sebastiano Filocamo, ma la Regina Elisabetta II.
Pregi e difetti dell’essere attore? Il momento più gratificante, ma anche quelli che ricordi meno volentieri (se ci sono e se ti va di raccontarli)…
Dico una banalità, ma è un bellissimo mestiere. Il difetto è che molti non te lo lasciano fare in modo che rimanga un bellissimo mestiere. Per cui ami e odi contemporaneamente. È un bipolarismo insito nel mestiere sopratutto per chi lo vive come me in maniera totalizzante. Ci sono stati vari momenti tanto positivi che negativi. Alcuni nutrono la tua anima altri saziano l’ego. Una madre che alla fine dello spettacolo “Naja” di A.Longoni (denunciava i suicidi in caserma) a Trieste entra in camerino e mi chiede se può abbracciarmi. L’abbraccio, poi il suo pianto e mi dice: “Stasera in scena ho visto mio figlio che ho perso durante il servizio militare. Lo deridevano perché avevano scoperto che era gay e si è suicidato. Stasera lei, con la sua interpretazione mi ha dato modo di rivederlo, per questo ho voluto abbracciarla.” Mi nutro di piccole anonime emozioni. Poi c’è il mio lato frivolo per cui:…vedere la mia faccia sulla copertina del libro “Nemico di classe”, essere chiamato da Tornatore di sabato e lunedì trovarmi sul set con Depardieu e Polanski. La lettera con l’Oscar impresso inviatami dall’ Academy ringraziandomi per aver partecipato al film vincitore “The journey of hope”. Una dedica di Marco Bellocchio alla fine del lavoro svolto insieme. Di contro: le tante telefonate attese, un provino andato bene ma poi prendono l’altro perché conosciuto o ben ammanicato, giorni, settimane, mesi nella speranza che qualcosa accada. Porte chiuse sulla faccia. Tanti che hanno potere e non sanno fare il loro mestiere esprimendo così l’oceanica ignoranza che il nostro cinema coltiva e tu puoi solo subire o ribellarti e farteli nemici. Lasciarti fuori da uno spettacolo dopo quattro anni, senza spiegartene le motivazioni. Sai che è invidia o cattiveria, comunque cose brutte. Ma io provo a coltivare solo i bei ricordi.
Parafrasando uno degli aforismi di Wilde più un uomo indossa una maschera più rivela cose di se stesso. Cosa dovremmo sapere di te dai tuoi ruoli? Cosa hai messo di te nei vari personaggi della tua carriera?
Wilde aveva ragione. Io sono uomo, assassino, carabiniere, omosessuale, padre, femmina, sporco, raffinato, estremo, semplice, padrone, leale, onesto, perverso, solare. Posso essere puro e angelico a dispetto della mia faccia che sembra esprimere il contrario e scuro e cinico quanto la mia anima aspira ad essere pura. Io non mi piaccio, quindi cerco sempre personaggi distanti da me. Sono curioso, osservo moltissimo e così si vedono cose che molto spesso agli altri sfuggono. Ti racconto questo: un giorno ero in metro a Roma osservavo un ragazzo che aveva qualcosa di strano nel fare. Era agitato, sopra le righe. Ad un certo punto mi dice: ”Che cazzo hai da guardare?”, era sfrontato, ma impaurito. Mi aveva scambiato per uno sbirro e ho capito che quel vassoio di dolci che teneva in mano in verità potesse contenere della droga. La conferma alla stazione Termini quando all’uscita la polizia l’ha fermato.
Qualcosa di se stessi c’è sempre, ma è poco, forse chi ti conosce profondamente lo riconosce, ma in genere cerco di mettere di me il meno possibile. Parlare di me in privato mi viene difficile, figurati in pubblico. Un giorno se mi offriranno una commedia allora prenderò molto dal mio lato “cazzone” che nella vita con i miei amici spesso viene fuori e allora ci metterò molto di mio!
Come ti prepari ad un ruolo? Come studi il personaggio?
Parto dai dettagli. Dalle piccole cose, piccoli gesti, poi piano piano costruisco la sua vita, e gli do mani, sguardi, voci, postura, pensieri, ricordi. Costruisco una storia parallela a quella che vivo nella sceneggiatura, che nessuno mai conoscerà. Questo mi permette poi di avere in pugno il personaggio e quindi quando il regista mi dirige io so dove andare a prendere per dargli quello che mi chiede. È un tipo di lavoro che non ti puoi permettere se fai televisione. Lì devi essere quello che sei, battute dette per fare aria, non molto di più. Abbiamo abituato il pubblico a non pensare e a fruire passivamente. Così la gente pensa che molti di quelli che vede nelle soap opera o in qualche ignobile fiction siano attori. Alle nuove generazioni non è stato dato modo di avere gli strumenti per riconoscere qualità, professionalità, mestiere. Sono uno che pretende molto da se stesso e dagli altri, uno che non si accontenta mai, preciso e disciplinato, ma sempre pronto anche a ridere di sé. Sul lavoro sono intransigente. Un film, uno spettacolo teatrale, viene bene quando tutti lavorano per lo stesso obiettivo e non per il proprio egocentrismo. L’ascolto e l’umiltà nell’arte sono fondamentali, ma direi anche nella vita.
La differenza fra il recitare sul palcoscenico e davanti ad una macchina da presa?
Due linguaggi diversi. Due tipi di concentrazione molto differenti. Il palcoscenico ha una magia immediata, lo senti nel respiro del pubblico, nell’attimo che lo fai e sai che domani lo rifarai, ma sarà diverso, quindi cerchi di goderti quel momento così come ti arriva in quella serata. In teatro si fanno mesi di prove, pomeriggi e sere passate con colleghi che piano piano conosci. In cinema a volte non hai mai visto prima i colleghi con cui dovrai dividere la scena. È l’eccitazione dell’ignoto, di un incontro promiscuo. Poi c’è tanta gente intorno, rumori, voci, la troupe e capisci subito se ti amano o meno e poi il silenzio e il ciak. Il silenzio in cinema è quasi sempre sinonimo di azione. Il cinema è la magia dell’istante che si ferma e diventa per sempre, ma spesso è anche tecnica. Fermati a questo segno, gira la testa e prendi la luce e così via. Il mezzo devi saperlo usare e non subirlo passivamente. Spesso tutto deve essere piccolo, dentro, lieve. Devi avere il controllo di molti più elementi. Per esempio, la rabbia va misurata rispetto anche all’inquadratura. Poi la fotogenia, l’espressività nel cinema contano a volte purtroppo più della bravura. Per semplificare vergognosamente: è come un palloncino che in teatro per mostrarlo devi dargli più fiato, in cinema basta meno. In uno devi mostrare, nell’altro devi sottrarre e interiorizzare.
Un tempo il cinema italiano era famoso nel mondo, poi è stato sotterrato dai cinepanettoni, ora quale è la situazione, soprattutto creativa, del cinema italiano, secondo te?
Mancano le idee e chi le riconosce. I produttori pensano al nome e mai alla qualità o almeno alla consistenza. Mancano figure oneste che credano in chi ha passione, in chi ha esperienza al di là dell’aleatoria notorietà. In questi anni la televisione ha distrutto ogni forma d’arte. Oramai si fanno sempre più film televisivi. È molto forte la voglia di apparire, piuttosto che quella reale di aver qualcosa da dire. A volte rifiuto paghe o ruoli indegni e non per snobismo o altro (anch’io devo pagare le bollette e fare la spesa), ma solo perché credo fondamentalmente che la rivoluzione debba partire da dentro, dal singolo, altrimenti non cambierà mai realmente nulla. Il linguaggio del cinema porta all’arte e invece assistiamo sempre di più all’omologazione dei linguaggi creativi, a riproporre meccanismi di cui spesso si dice di rifiutare. Giornalisti che danno altro spazio a eventi di cui tutti già parlano assottigliando sempre più la visibilità di chi sta fuori dal coro omologato. Editori che mettono in prima pagina farfalline e ricette, produttori che non hanno neanche il coraggio di guardarsi in faccia. La gavetta, il sudore, il sacrificio, la sperimentazione, porta a forme d’arte che si aprono e non reiterati vuoti perché solo proficui economicamente.
I reality hanno rimbambito il cervello del pubblico. Siamo ipocriti noi addetti ai lavori a non volere vedere e a non intervenire anche se questo è distruttivo. La bassa o a volte inesistente qualità con cui si fanno le cose è sintomo di un malessere che non vogliamo vedere e cosi si creano “mostri” che se la suonano e se la cantano fra loro. I costumi per esempio in cinema sono importanti, fanno parte di un compimento del personaggio. Se sento un regista che dice: “Sì, poi per i costumi ci si arrangia…”, spesso evito di lavorarci. Professionalità e passione queste sconosciute! Non per tutti ovviamente, non sempre. Ho fatto due video clip, per esempio, ed entrambe le volte c’è stato un grosso lavoro di mediazione e apertura da parte del reparto costume eppure il budget era di due lire. In entrambi i casi però c’erano alle spalle due “grandi teste creative” come Cosimo Alemà e Marco Missano. La qualità dei professionisti rende diverso il dialogo e il risultato, fermo restando gli stessi ingredienti economici.
Nella seconda pagina (cliccando sul titolo si apre la pagina solo di questo post e appare anche la seconda parte) continua l’intervista a Sebastiano Filocamo, in cui l’attore ci parla della pellicola in uscita e dei nuovi progetti, con altre foto di Efrem Raimondi.
Pagine: 1 2
bellissima intervista !!! adoro la risposta su Wilde
è una bellissima intervista.Sebastiano racconta il nostro mondo davvero con intensa leggerezza. Belle le foto. Ho scoperto anche questo blog. Evviva.
intervista molto bella… densa di concetti importanti, di etica e di grande umanità. non se ne vedono poi cosí spesso. o sono io che non so vedere… complimenti a te, stefano, e a sebastiano. che stimo molto. e anzi colgo l’occasione per ringraziarlo della sua disponibilità.
La sincerità è virtù rara, bravo Sebastiano: un grande attore che sa essere un grande uomo.
Una bellissima intervista! Ho scoperto un attore con coscienza umana, che soffre. un uomo profondo e onesto. cerco di vedere il film ed seguire il lavoro creativo di Sebastiano. Altra scoperta é le opere di Efrem Raimondi. Grazie Stefano per tutte due!