Ricordo di aver visto per la prima volta Andrea Cammarosano alla premiazione di “Who’s on next?” Uomo a Pitti Immagine lo scorso giugno. In quella occasione il designer ha meritato una menzione speciale della giuria e il premio Yoox.com, che prevedeva la realizzazione di una capsule per il noto sito di vendita online. Non conoscevo ancora Andrea, ma incuriosito sono andato dopo alla scoperta del designer, trovandomi di fronte ad una creatività che mi ha conquistato. Triestino, ma con un curriculum che racconta di uno spirito cosmopolita, che lo ha portato in giro per il mondo, senza mai dimenticare le radici italiane. Gli studi ad Anversa, il lavoro con Walter Van Beirendonck, la sua attuale dimora statunitense, a San Francisco dove è anche docente di moda. Tutto della storia di Cammarosano mi affascina, e per sanare le mie curiosità ho deciso di chiacchierare un po’ con lui, scoprendo una persona disponibile e piena di energie, simpatica, comunicativa e con molti progetti in cantiere, alcuni anche in Italia. Spero di avere solleticato anche la vostra di curiosità e vogliate incontrare con me Andrea Cammarosano. In questa intervista esclusiva per lepilloledistefano.
Il designer fotografato da Elio Germani.
Un italiano ad Anversa. Sono curioso di sapere come da Trieste sei arrivato alla scuola di Anversa e quali sono i tui ricordi lì.
Non mi sono mai sentito portato verso l’arte pura, che trovo troppo alta per poter parlare di me, né verso la moda di mercato, intesa come creazione di merce o di status quo. Per questo, a 19 anni, ho scelto di studiare ad Anversa. Avevo sentito dire che era una scuola d’eccellenza, che coniugava la moda e la creatività senza mettere etichette. E infatti è così. Quegli anni sono stati un’esplosione di idee e di scoperte, e ricordo anche il legame da subito fortissimo con i compagni, la sensazione che il nostro lavoro era importante perché personale e che quindi condividerlo ci portava più vicini l’uno all’altro, e consolidava la nostra amicizia. Anversa è una scuola dura, ma le soddisfazioni che ti dà sono grandi. La mia visione della moda, come qualcosa di intimo, potente e emozionale, sarà sempre legata a quell’esperienza.
Il tuo percorso poi ti ha portato a partecipare a Its, importante concorso che si tiene ogni anno proprio nella tua città. Come è andata quella esperienza? Quanto pensi siano imprtanti contest come questi per i giovani designer?
Quando ho visto che ero stato selezionato per ITS non ci potevo credere, ed è infatti stata un’esperienza incredibile. Il mio progetto quell’anno era molto ambizioso, forse anche troppo…Avevo deciso di disegnare una collezione donna, visto che non l’avevo mai fatto prima, molto sperimentale anche nei materiali e nei temi. Essere in finale mi ha aiutato molto e mi ha dato i primi contatti lavorativi importanti. Questi contest sono essenziali, perché ti danno visibilità, ti fanno incontrare professionisti del settore e ti confrontano con le loro domande e richieste, poi ti fanno conoscere altri giovani designer che in molti casi diventano i tuoi amici, colleghi e competitors. Sono anche importanti perché ogni scuola, oggi, ha una sua unica impronta artistica e in concorsi come ITS è possibile rendersi conto di queste diverse impostazioni e farne tesoro.
“Serenada Moleculare”, 2008, la collezione con cui ha sfilato a ITS. Corsetto in polietilene con cristalli in poliestere. Photo Ronald Stoops. Anversa 2008Per molti, me compreso, Walter Van Beirendonck è un punto di riferimento nella moda. Hai lavorato con lui, in che modo quella esperienza ti ha influenzato?
Walter mi ha offerto un lavoro appena ho finito la scuola, due giorni dopo la sfilata di diploma ero con lui a Firenze, dove Pitti Immagine lo aveva invitato a sfilare come guest designer. Walter è una delle figure più importanti per me, dal punto professionale prima di tutto, perché crede molto in me, ma anche dal punto di vista umano, perché ha una sterminata fantasia, talento e curiosità. Mi ha sempre spinto a continuare la mia carriera personale in parallelo con il lavoro che facevo per lui – dal 2008 al 2010. In quel periodo ho realizzato diversi progetti e collezioni sotto il mio nome, tra cui “Bury Me Standing” che ho poi presentato nel suo negozio di Anversa, il bellissimo Walterstore. Mentre i miei progetti erano concentrati sull’arte e sui pezzi unici, per Walter disegnavo una linea di accessori in licenza ad un grande marchio italiano e assistevo alla realizzazione della sua collezione – quindi mi occupavo di aspetti anche tecnici. Entrambe le cose sono molto importanti, il sogno e la realizzazione – e questa é un’altra cosa che ho imparato da Walter, che é un sognatore, ma anche un grandissimo professionista.
“Bury Me Standing”, 2010, Installazione a WalterStore. Photo Ronald Stoops. Anversa 2010.Ci racconti come è nata la tua linea e da quali istanze personali, input?
I vestiti ti fanno vivere molte vite ed è la cosa che mi piace di più. Potersi immaginare diversi vuole anche dire essere più veri. E poi c’è il corpo, che mi ha sempre affascinato, forse ossessionato; è l’unica cosa che viviamo da dentro, senza mediazione, e quindi avere accesso alla corporeità delle persone è un’opportunità unica di capire e di comunicare. La moda è sorprendentemente intima ed è questo che le dà significato.
Dall’Italia a san Francisco. Perché questa scelta? Cosa ti manca dell’Italia?
Dopo sette anni ad Anversa avevo bisogno di cambiare e San Francisco mi ha attratto perché era la città della corsa all’oro, del Far West come simbolo di tutte le frontiere. Ma in gran parte è anche successo per caso ed è stato bello così. Mi sono innamorato, mi hanno offerto un lavoro all’Academy of Arts University, mi é sembrato il segnale giusto. E in effetti è una città bellissima, stretta tra la baia ed il Pacifico. San Francisco è stato il trampolino che mi ha permesso di creare una discontinuità da Anversa e allo stesso tempo di capire cosa avevo veramente imparato e di cosa avevo invece bisogno; è lì che ho fondato il mio marchio e stare lì per due anni mi ha rigenerato, mi ha anche calmato, mi ha fatto apprezzare diversamente molte delle cose che ho qua. La California è piena di contraddizioni e di simboli affascinanti, io ci ho ritrovato quelli dei libri di Steinbeck, “East of Eden” e “The Grapes of Wrath”, ed è da quest’idea che è nata la mia prima collezione commerciale, “East, West, Home Best” (Estate 2012).
“East, West, Home Best” – Spring Summer 2012. Giacca e pantaloni in denim ricamato e accessori in plastica e silicone. Photo Deniz Buga. Amsterdam 2011.
Una tua vecchia collezione flirtava con un immaginario s&m. Come hai tradotto quel tipo di mondo in una collezione maschile? E, soprattutto, perché?
Il corpo è una delle mie ossessioni, come ti ho detto e con “I Am A Monster” cercavo di capire proprio l’esagerazione del corpo. Ho portato dei bodybuilders in una clinica di Wetteren, in Belgio, dove realizzano protesi ed apparecchi posturali e dove usando uno scanner 3D abbiamo scannerizzato i loro corpi in diverse posizioni e li abbiamo poi replicati in schiuma di poliuretano, come dei busti. Ho poi collaborato col museo del tessuto di Tillburg in Olanda e con un famoso sexy shop di Anversa, Toys for Boys, per elaborare da un lato stoffe molto colorate (jacquard e tagli laser) e dall’altro harness di pelle, tutti modellati su queste sculture di poliuretano. Era un progetto insomma molto misto, scultura, textile e pelle. Cerco sempre di unire cose a prima vista diverse, ma che in realtà rientrano in una stessa storia – in questo caso, l’oggettificazione: sia dei corpi, che é un elemento ovvio della moda, sia del sesso – tramite il fetish – sia della cultura, intesa come tradizione; i tessuti che ho creato erano rielaborazioni di diversi tessuti tradizionali europei e medio-orientali.
“I Am A Monster”, 2010. installazione a Fred London Gallery durante London Fashion Week. Queste alcune delle sculture create col centro ortopedico di Wetteren, con harnesses di pelle realizzati con Toys For Boys e boxer shorts stampati e lasercut realizzati col museo del tessuto di Tillburg. Photo Andrea Cammarosano.Quali pensi sia il legame fra moda e arte?
La moda, intesa come fare vestiti, è un’arte applicata e negli ultimi tempi le arti applicate hanno avuto un nuovo rifiorire e hanno acquistato un nuovo lustro – in parte anche perché viviamo in una società tecnologica di massa, per cui tutto quello in cui ancora si vede l’impronta umana diventa prezioso ed è da proteggere. Soprattutto in un momento in cui l’arte “pura” viene mercificata quasi più della moda. La moda poi è multidisciplinare, si sviluppa tramite i colori, le superfici, il corpo, il movimento, il tempo, le stagioni…non potrei immaginare una disciplina più complessa e dinamica. Credo fermamente che per fare veramente moda occorra la passione, e in questo senz’altro è il legame tra la moda e l’arte, nella passione degli individui.
Ci racconti la nuova collezione?
La mia collezione estiva 2014 si intitola “Difendi, Conserva, Prega”, che poi sono dei versi di una poesia in friulano di Pasolini. I suoi testi e film sono bellissimi e molto attuali, perché parlano di cose importantissime al giorno d’oggi. In particolare, Pasolini parla molto di una cosa che mi sta a cuore, cioé l’estetica della purezza. Bellezza interiore ed esteriore, che lui vedeva essenzialmente in chiave sociale, erano per lui interdipendenti e questo è un tema importante per me. Nella collezione cerco di tradurre l’idea di queste due bellezze interdipendenti in una serie di vestiti anch’essi interdipendenti, mescolando il mondo immediato e rituale della natura, intesa come decorazione, con quello storico e materiale della cultura, intesa come forme e capi funzionali.
Immagini della caspule collection realizzata da Andrea Cammarosano per Yoox.
In generale da dove arrivano gli input? Quali amori hai oltre la moda?
Sono molto curioso e ci sono molte cose che cerco di capire, attraverso l’immaginazione. In genere sono tutte cose legate al sentire. Cerco di immaginare come si siano sentite diverse persone (uomini perché disegno uomo, ma non solo) in situazioni particolari. Nureyev, ad esempio, è tornato in Russia quando già era malato, per una serie di spettacoli più o meno deludenti; interpretava il principe Ivan eroe del folklore russo. I bambini della scuola di ballo di Kazan, chiamati ad assistere con grandi aspettative, rimangono molto delusi; ma le maestre spiegano loro che non è l’uomo che devono guardare, “è il personaggio che ha creato”. Questo genere di storie, di situazioni mi stimola molto, e cerco di capire quali siano gli elementi chiave e di svilupparli…cosa significa, per un uomo che ha “tradito” il proprio paese, per un uomo malato, interpretare un’eroe? I vestiti sono un travestimento dell’anima, non solo del corpo. Un dettaglio di questa storia sono i pantaloni che indossava Nureyev: gli stessi in trent’anni di carriera, bellissimi, ma completamente usurati e rammendati…mi chiedo che ruolo abbiano questi pantaloni, nel creare quel personaggio che solo a tratti è dato di vedere. Credo che tutti noi siamo simboli e che significhiamo altre cose da noi stessi; e io cerco di pensare a queste altre cose.
Le immagini sotto si riferiscono alla collezione di Andrea Cammarosano a/w 2013-14. Foto Ruggero Mengoni.Che cosa c’è di italiano nel tuo lavoro e cosa invece è figlio della tua esperienza internazionale?
Di italiano c’è che parlo molto. Di internazionale c’è che cerco di essere serio.
Il ricordo più bello legato alla moda?
Il mio compleanno è il 21 gennaio e quindi cade sempre durante la settimana dell’uomo a Parigi, cosi’ l’ho sempre passato lavorando. La sera però andiamo sempre nel bellissimo Bofinger, dopo la sfilata: fois gras, zuppa di cipolle e poi un bengala acceso infilato dentro alla creme brulée. E poi tornare in albergo con la neve, un tempo con Walter e il suo team, adesso con il mio team, il mio ragazzo e i miei amici; camminare lungo il canale Saint Martin ghiacciato. Oppure l’estate caldissima dello scorso Pitti, dopo avere vinto il premio di “Who’s On Next?”, essere intervistato da Suzy Menkes, festeggiare con una buonissima bistecca fiorentina, alzarmi all’alba per godere un pò di fresco e i cornetti appena fatti.
Secondo te alla gente interessa ancora la moda?
Certo che sì. È che, come in tutte le cose, produciamo molto di più per cui le cose di qualità ci sono sempre e le persone interessanti ci sono sempre, ma è più difficile notarle nella marea di paccottiglia.
Idea personale di eleganza?
L’intelligenza.
Ora una parte del tuo percorso è legato anche ad una azienda italiana, cioè la Gilmar. Ci racconti?
La Gilmar mi ha chiamato a Gennaio, appena ero rientrato in Italia. Avevano visto la mia collezione estiva 2013 e volevano che facessi una consulenza per loro. Hanno una storia bellissima, rappresentano il periodo d’oro della moda italiana – una grande azienda internazionale nata dalla passione di una persona (Giuliana Marchini), dalla sua famiglia e dalla sua visione. Hanno dei laboratori enormi e bellissimi, capaci di realizzare qualsiasi prodotto o tecnica internamente; Paolo Gerani, l’art director delle linee Iceberg, é un grande appassionato di arte e cerca di trasmettere quest’energia anche al suo team. Molti vedono la creatività come una cosa che ostacola il mercato, e invece non è così. Le due cose sono essenziali l’una all’altra. La Gilmar sta facendo delle scelte coraggiose, ci sono molti nuovi progetti in arrivo, e sono emozionato di fare parte di questa operazione.
Progetti per il futuro?
Mi piacerebbe potere fare di più in questi due campi, la formazione e il design. Uno dei motivi per cui sono tornato in Italia è per lavorare con Linda Loppa e Patrick DeMuynck al Polimoda di Firenze. Loro sono personaggi chiave ad Anversa, Linda in particolare ha veramente creato (assieme a Walter Van Beirendonck) quella scuola, e adesso è una fortuna averla in Italia. Vogliamo che il Master Internazionale che stiamo mettendo in piedi al Polimoda, e di cui sono il referente, possa diventare un nuovo punto fisso per chi viene in Italia a studiare dall’estero. Il nostro è un corso non solo tecnico, ma di “authorship”. Dall’anno prossimo anziché durare 9 mesi si allungherà fino a 14 mesi, quindi avremo la possibilità di spingere più in là gli studenti e di seguirli meglio. La diversità che viene dalle loro diverse formazioni e background è una ricchezza infinita per la scuola, e l’Italia é ancora il paese di eccellenza per il tessile e la manifattura. Queste due energie non vanno sprecate e vanno assolutamente messe insieme. D’altra parte, è importante portare tutta una serie di nuovi talenti, italiani e non, nelle aziende cosiddette “storiche” italiane perché possano diventare più innovative, mantenendo la loro qualità, e perché Milano diventi di nuovo un punto di riferimento per chi segue i nuovi trend. Per quanto riguarda la mia linea, Pitti Discovery mi ha dato uno splendido appoggio e sono sicuro che faremo nuovi progetti insieme in futuro ed è meraviglioso che continuino a sostenere giovani designer italiani e non. L’Italia non deve diventare un luogo della storia, ma un luogo di energia e di proposte coraggiose.