Era il 1973 quando un giovane giapponese debuttò sulle passerelle parigine, lasciando a bocca aperta stampa e addetti ai lavori: una lineare geometria caratterizzava i volumi, metamorfosi create dallo stratificarsi dei tessuti, un continuo divenire di drappeggi con richiami alle tradizionali vesti nipponiche.
Era stata una collezione d’esordio indimenticabile. E lui era Issey Miyake.
Dopo più di quarant’anni, oggi come allora, lo stilista pone il tessuto al centro della sua produzione: spesso prodotto in esclusiva per le collezioni si carica di colori che vanno dal bianco puro al grigio, fino ad arrivare a tonalità nettamente più decise.
La plissettatura era – ed è – il suo regno indiscusso: innovativa e di rara bellezza, capace di rendere leggere silhouette riconducili ad avveniristiche armature.
Pleast Please – questo il nome dell’iconico tessuto – nacque nei primi anni Novanta da un’intuizione.
Era il 1993 quando William Forsythe, coreografo del balletto di Francoforte, propose a Miyake di disegnare i costumi per il balletto The Loss of Small Details.
Lo stilista, osservando attentamente i movimenti dei ballerini, capì quanto fosse necessario realizzare un tessuto che accompagnasse la fluidità della loro danza.
Il leggendario plissé prende vita dopo un complesso procedimento di tagli, ricuciture e passaggi a caldo: solo così può arricchirsi di quelle specifiche tecniche in grado di lasciare sempre intatta la plissettatura.
Pleats Please non è solo un tessuto, è l’identificazione di un brand.
Così simbolico da diventare ispirazione per progetti speciali di comunicazione. È questo il caso di Animals, visual project realizzato dall’art director Taku Satoh, progetto che esprime l’interesse della maison nipponica per l’ecosistema animale e l’ambiente.
Un panda, un gatto, un cavallo ripresi di schiena, con lo sguardo rivolto verso l’altrove: verso il futuro, verrebbe da dire.
Ogni creatura è creata digitalmente riproducendo Pleats Please: il tessuto, assumendo colori e forme differenti in una continua metamorfosi, si trasforma nel manto animale.
Philippe Trétiack, a commento della retrospettiva “Making Things” dedicata a Miyake dalla Fondazione Cartier nel 1998, scrisse: «Non ha mai cessato di cercare, d’interrogare, di scrutare i materiali e ne ha tratto qualche risposta, qualche traccia per disegnare quello, che, domani, potrebbe essere il modo di vestirsi degli esseri umani. Sarto del vento, poeta della leggerezza, architetto di un’armatura dal peso di una piuma per il prossimo millennio, Miyake, di anno in anno, diventa il maestro, il guru della più fluida modernità».
Queste parole, a distanza di quasi vent’anni, appaiono più che mai contemporanee pensando al lavoro del visionario, inesauribile artista che è Miyake.