Ci sono percorsi della moda che scelgono d’intrecciarsi all’arte per una vera questione di affinità: in questo nostro caso, di affinità nella dichiarazione personalissima di libertà.
Uh no, non si tratta di alcun mero divertissement, perché ormai lo stiamo apprendendo bene: la moda sa essere un gioco serissimo.
Soprattutto se porta con sé il blasone di un nome d’indubbia importanza, uno di quelli che ha lasciato la propria impronta sartoriale nell’evoluzione delle forme e degli intenti dello stile, e ha impresso la sua identità dal cuore della città che più di altre assembla il sogno negli abiti: Parigi.
L’eredità di Guy Laroche, l’uomo e lo stilista, è infatti intrecciata con quella che potremmo definire una raffinatezza ribelle, storicamente votata alla liberazione del corpo femminile dalle costrizioni di costruzioni sartoriali affollate di stoffe e strutture, e che nel tempo è rimasta agganciata a questa sua essenza, declinandola in guizzi geniali in cui sapeva mescere la seduzione al minimalismo, la nettezza sartoriale all’immancabile effetto-sorpresa.
La storia della maison Guy Laroche dura ormai da svariate decadi, e vari son stati gli stilisti che si son succeduti al suo fondatore: l’attuale, Richard René, sembra condividere pienamente quella stessa devozione all’essenzialità, alla sobrietà minimale come base fondamentale per dedicarsi completamente alla costruzione del fascino architettonico delle forme, senza farsi distrarre da orpelli decorativi che non son mai ben accetti nelle sue creazioni.
Una ricerca costante della purezza, che si rinnova nella collezione a/i 2018-19, già a partire dalla scelta dell’ispirazione: l’Art Brut.
Una scelta che annoda il filo dell’eredità raccolta ancor più stretto alla sua fonte primaria: quella stessa Art Brut di Jean Dubuffet di cui Guy Laroche in persona fu collezionista, e con la quale condivideva la forza della liberazione attraverso la creatività istintiva.
Prima di finire nei libri di storia dell’arte, infatti, l’Art Brut fu un luogo di espressione libera per coloro che la società li relegava negli angoli nascosti, per dimenticarli: l’Art Brut, intesa e tradotta come “arte grezza”, era l’espressione libera degli emarginati, dei folli e dei carcerati, e di coloro che nulla avevano a che fare con i vincoli culturali delle accademie, bambini e primitivi compresi.
Ecco, Richard René va dritto al cuore del percorso ideologico e grafico di questo movimento: lì dove tutto ha inizio, il foglio bianco.
E lo rendo un abito, quello che apre la sfilata: al quale seguono capi, ensemble, costruzioni sartoriali che traducono in abiti quei gesti liberi fatti di grafismi istintivi che diventano motif decorativi, di bozzetti e incompiuti richiamati da quei tagli sbiechi che ondeggiano liberi all’orlo del corpo, di linee di contorno di una tela che ora è un abito candido attraversato da righe nere improvvise, di bozzetti che prendono vita in quegli abiti lunghi e dritti, di pennelli intinti nel colore così come lo è quel little dress intriso di oro colante, di tagli che fendono le forme come quelle aperture che rivelano le gambe.
Di quel gusto a manipolare la materia che qui diventa la voglia di stropicciare un foglio d’oro e farne un monile, o persino un abito: per stupirsi positivamente di sé, ancor prima di stupire gli altri.