Conosco Marco da tempo, non solo è uno di quei colleghi che si incontrano volentieri ad una sfilata o ad una presentazione e con i quali è piacevole scambiare qualche battuta, ma sono stato fra i primissimi, spero di poterlo dire senza passar davanti ai suoi tanti fan, ad esprimergli in occasione dei suoi inizi come contributor di un noto portale fashion online, il mio apprezzamento. Marco, che di cognome fa Magalini, è un ottimo critico di moda, un fashion writer attento, apprezzato, preparato.
Per cui ho accolto con piacere la notizia che si stava dedicando ad un libro. Questo era alcuni mesi fa, ora il libro c’è, è stato già presentato in alcune manifestazioni importanti, compreso in concomitanza con la passata edizione di AltaRoma, durante “Panetta Tailor loves #ilnuovomadeinitaly”, un percorso di stile curato da Federico Poletti, proprio presso la storica sartoria romana Panetta.
È da un po’ che rincorro Marco, impegnatissimo fra fashion week varie e i suoi tanti impegni, è senior editor per fashion illustrated e suoi articoli sono pubblicati su riviste come Urban, The Lifestyle Journal, Vo+, vogue.it, Huffinghton post, Modaonline e Designspeaking. Ma alla fine ce l’ho fatta ad intervistarlo. Volevo sapere di più del libro, ma soprattutto capire con lui quanto fosse importante il tema trattato.
L’opera si chiama: “Moda. Il nuovo Made in Italy” e parla di quel tanto atteso ricambio generazionale che sembra ora finalmente accadere nel nostro fashion system. Argomento che mi è molto caro, come saprete bene se seguite questo blog, e che sta molto a cuore anche al giornalista, come avrete modo di cogliere dal nostro scambio di battute.
Molto felice di poter dedicare spazio su lepilloledistefano a questo argomento, quindi, do il benvenuto a Marco Magalini. Enjoy!
Come è nata l’idea di questo libro?
Sto vivendo una fase della vita nella quale un forte realismo si scontra di continuo con il mio grande entusiasmo nei confronti del lavoro, delle arti (la moda, il design, il cinema, la letteratura, la danza, che sono per me anzitutto delle arti), delle persone che incontro. E questo entusiasmo, nonostante la congiuntura socioeconomicamente evidentemente complessa, continua fortunatamente ad avere la meglio sul primo. Questa dicotomia ‘belligerante’, tra razionale ed irrazionale, emergeva anche parlando con molti giovani creativi i quali si trovano ad operare in una situazione del mercato non facile, nella quale la vera sfida consiste nel rimanere dei creativi ‘puri’, senza scendere troppo a compromessi con le domande talvolta schizofreniche e fuorvianti della clientela massificata. Con il mio libro voglio trasmettere ai lettori le storie di questi nuovi imprenditori, il loro entusiasmo, i loro incredibili traguardi. Volevo dare alle persone ‘normali’, quelle che non possiamo definire ‘addetti ai lavori’, gli strumenti per decidere di supportare il lavoro di questi nuovi creativi, tramite le scelte d’acquisto.
Per chi è questo libro? Chi lo deve leggere?
Ho pensato questo libro partendo dalla fine della storia: una distinta signora che – complice la lettura del mio libro – in una raffinata boutique, decide di acquistare la borsa di una nuova imprenditrice della moda (alias, stilista), anziché quella di uno dei ‘soliti noti’. E che, sempre questa distinta signora, indossando tale borsa, ricevesse molti complimenti dalle amiche, perfettamente coscienti di che borsa si tratta. Il mio è un libro per tutte le persone curiose, quelle che ricercano, nel mondo nel quale vivono, delle idee nuove. Quelle che si entusiasmano nel vedere qualcosa di originale, di ben fatto, di creativamente geniale. Quelle che si informano, che apprezzano il lavoro degli altri e che danno valore alle idee. Sono un po’ vago? Sì. La moda è solo un pretesto. Se i protagonisti del libro facessero altro, lo farebbero in modo egualmente geniale.
Quale, a tuo avviso, l’importanza di un’opera come questa?
È un libro che parla di una nuova generazione di imprenditori che, al pari dei ‘padri’, raggiunge dei traguardi sfruttando un ingrediente fondamentale: il sacrificio. Nulla di sostanziale è cambiato col passare del tempo in tale ricetta per conquistarsi il successo (nella moda, come in qualsiasi altro settore). Troppo spesso ho invece a che fare con dei miei (e loro) coetanei che non conoscono affatto il significato della parola sacrificio, e che affrontano il ‘mondo della moda’ assuefatti dai troppi programmi televisivi ‘glamour’ e completamente fuorviati dalla miriade di specchi per le allodole in formato 2.0. Moda non significa solo vestiti, significa cultura, sociologia, passione, sensibilità, visione, economia, duro lavoro. Per quello che ho imparato dalle esperienze dei dodici protagonisti del mio libro, sulla mia pelle, e da tutte le persone che ho intervistato in questi anni, l’ingrediente che fa la differenza è sempre lo stesso: il sacrificio. Molte cose sono cambiate nel corso degli anni: internazionalizzazione, time-to-market inferiore, burocrazie sempre più costrittive, e molti altri aspetti. Ma, come dice Paula Cademartori, il 2% è glamour, il restante 98% è fatica.
Quali le difficoltà incontrate nella stesura dell’opera?
Il mio è un libro comparativo, nel quale racconto dodici storie in dodici capitoli. Un po’ come se, entrando in un negozio, si vedessero dodici corner di altrettanti brand. Tutti sotto lo stesso tetto, certo, ma ognuno concepito con una propria identità e volto a raccontarla al meglio. Nel mio libro accade esattamente la stessa cosa ed è, in buona sostanza, a parole, lo specchio di ciò che accade in tutti i negozi del mondo. Il confronto spesso spaventa e quindi ho trovato alcune porte chiuse. Mi auguro che in futuro tali creativi trovino la forza di credere maggiormente nei loro progetti e superino di conseguenza la cieca paura del confronto.
Quali invece le sorprese e gli insegnamenti personali che ne hai tratto?
Come confesso in più d’un passaggio del libro, ero partito prevenuto. Immaginavo che in qualche caso fosse intervenuto uno ‘zampino’ di troppo. Invece mi sono trovato davanti delle persone di forte carattere che mi hanno insegnato che la fortuna non esiste. E che, con 10.000 euro, se alla base c’è del talento, si può andare lontano. Consiglio la lettura del mio libro a tutti quelli che odiano la moda, perché la considerano spreco e superficialità, e a tutti quelli che la amano a tal punto che l’hanno scelta, o la stanno per scegliere, come lavoro. Parlare con questi designer – chi più, chi meno nuovi sul mercato – mi ha fatto capire che la vera differenza la fa proprio il talento, la voglia di fare dei sacrifici e la determinazione, necessari per sopravvivere in questo ambiente e per crescere. Alcuni di loro provengono dall’altra parte del mondo e, nonostante tutto, hanno scelto il nostro Paese per insediarsi e realizzare il loro sogno. Non in America (o le più in voga Australia o Inghilterra), ma in Italia.
Quali sono, se ci sono, le caratteristiche che hanno in comune i nuovi nomi della moda italiana? Ci sono dei tratti comuni, delle attitudini simili, delle strategie che avvicinano i nuovi designer?
L’identità in primis. L’identità non ha confini e parla un linguaggio universale: quello della moda. Molti di questi creativi, all’inizio del loro percorso, erano alla ricerca di un lessico, col quale esprimersi, globalizzato, universale, di facile comprensione. Salvo poi accorgersi che le persone desideravano tutt’altro: volevano acquistare qualcosa di diverso, qualcosa che parlasse veramente di loro, delle loro identità, storie. Per tutto il resto ci sono già le catene low-cost. Ed hanno quindi intrapreso una lunga strada fatta di introspezione e ricerca dell’essenziale, finalizzata a creare uno stile unico ed inimitabile. C’è poi la qualità e la manifattura. Per questo il nostro Paese è così ricco di talenti nella moda. Ricordiamoci che tutti questi creativi, italiani e stranieri, per insediarsi e realizzare il loro sogno hanno scelto l’Italia. Questo fatto dovrebbe farci riflettere e credere noi stessi, in primis, nelle potenzialità del nostro Paese. Rubando delle parole di Renzo Rosso, che mi ha scritto la prefazione: “Voi siete il futuro di questo Paese e sta a tutti noi supportarvi come possiamo. Pensate sempre e solo globale, la moda è e sarà sempre più questo. Senza dimenticare il patrimonio più grande che offre questo nostro Paese: la sua tradizione, la sua storia, il suo gusto e i suoi artigiani. Che sopravviverà e rifiorirà anche grazie al vostro lavoro”.
Chi di questi nomi nuovi della moda ti ha convinto di più e perché?
Ho cercato più volte di stilare una (inconfessabile) lista di preferenze. Non ci sono riuscito. Ognuno di loro sta dimostrando una tale dedizione al suo progetto che merita un supporto concreto. E sarebbe sbagliato valutare il loro risultato in un momento preciso, in quanto ognuno di questi business prevede un percorso completamente differente.
Alla fine si può veramente parlare di un ricambio generazionale nella moda italiana?
Si, è così. Un ricambio che, come in ogni ambiente di cultura, sta avvenendo tramite dei ponti generazionali, anziché tramite delle faide. Giorgio Armani apre il suo Teatro di Milano per ospitare delle sfilate di giovani promesse (alcune delle quali sono nel mio libro), Silvia Venturini Fendi supporta attivamente il concorso Who is on Next?, la storica maison Pucci sceglie come direttore creativo Massimo Giorgetti. Sono tutti segnali che parlano di contaminazioni cross-generazionali. Quello su cui occorre ancora lavorare è la sinergia tra negozianti e i nuovi marchi, che dovrebbe essere potenziata. I buyer dovrebbero scommettere maggiormente sulle proposte di nuova generazione.
Che cosa potrebbero fare le strutture ufficiali per aiutare gli emergenti? A tuo avviso si fa abbastanza per loro?
In primis direi che occorrerebbe iniziare a pensare per davvero alla moda come business, non solo come argomento di costume, colore e mondanità. Le pagine della moda dovrebbero essere nei giornali nella sezione dell’economia e non dopo lo sport. Detto ciò, nel mio libro, innesco anche una riflessione sulle opportunità che in Italia trovano i più promettenti designer. Uno scenario difficile su cui si dovrebbe lavorare in maniera sinergica con le Istituzioni per offrire maggiori incentivi e premi per finanziare economicamente i new business. Su questo basti pensare a iniziative come il recente LVMH Prize o il The International Woolmark Prize o altri esempi all’estero dove, oltre alla visibilità, si offrono più concrete possibilità di supporto ai newcomers, oltre alla notorietà, come del denaro. Spenti i riflettori, non bisogna approfittare del buio per riprendersi i fiori.
Cosa ti riserva il futuro? Hai altri progetti in divenire?
Il mio desiderio è completare questa diapositiva dello scenario contemporaneo della nuova imprenditoria made in Italy, scrivendo altri 2 volumi: uno sui new player del Design e uno del Cibo.