La si potrebbe quasi definire una rivoluzione gentile: la strada che Lucio Vanotti percorre con le sue creazioni punta, infatti, imperterrita verso la direzione del cambiamento generoso, dello scardinamento di regole imposte che a volte serrano assai il ritmo della composizione creativa del sistema moda, ma anche il ritmo della composizione del gusto nel sistema del proprio guardaroba, e dell’allestimento estetico della nostra stessa immagine, noi che la moda la indossiamo con piacere grande misto a consapevolezza interiore.
Una rivoluzione gentile perché percorre la sua strada quasi con fare silente: non c’è confusione nella maniera di Lucio Vanotti di proporre la sua visione concretizzata in collezioni sempre applaudite, bensì c’è l’invito garbato ad essere accompagnati ad esplorare un mondo squisitamente personale, costruito su pilastri solidi che hanno a che fare con la passione per filoni culturali, artistici e architettonici che hanno segnato le epoche. Passione che si unisce al talento sartoriale vero.
I nomi aiutano di certo a comprendere meglio: quei pilastri, o punti cardinali immancabili, sono la rievocazione dell’aspirazione all’armonia perfetta del classicismo, del suggerimento dell’Architettura radicale a godere del piacere estetico che la composizione architettonica regala a tutto il mondo che ci circonda, della nettezza rigorosa del brutalismo che guida la mano a disegnare silhouette asciutte eppur eloquenti, della volontà purificatrice di un ascetismo ammantato di Oriente, ma intriso di una capacità poetica che ha le radici nel genio tipicamente italiano.
Quelle radici che gli consentono di mescere tali riferimenti in un punto di vista riassumibile in un motto parafrasato, e per questo perfettamente personalizzato: “Less is … freedom!”, ovvero il meno non è tanto questione di meglio, ma questione di libertà. Semplicità vuol dunque dire niente orpelli che distraggono, solo forme essenziali e funzioni efficaci da comporre, da sperimentare, con le quali giocare, da far fluire oltre i confini dei generi sessuali e delle scansioni stagionali.
Quello di Lucio Vanotti è dunque un elogio della sottrazione che si rinnova anche nella collezione a/i 2018-19: qui l’amore per il rigore delle forme che si esplicano nella funzione è allacciato alla dimensione dell’uniforme, nel suo essere un codice di appartenenza scritto nei dettagli solitamente composti secondo un razionalismo profondo, che per Vanotti è la materia prima da scardinare per spingere l’orizzonte della sua esplorazione ancora più in là.
Verso dove? Beh, stavolta la rotta è segnata da un approccio ludico e matematico assieme: giocare con le caratteristiche tipiche dei filoni che han fatto della divisa il proprio manifesto, ovvero workwear e new wave, sportswear e postmodernismo, hip hop e razionalismo, e ibridarli con attenzione meticolosa.
Il risultato è una semplicità d’apparenza assai complessa nella sostanza: sfila dunque la geometria, con le linee quadrate delle giacche over, con la forma rettangolare delle camicie, con l’appiombo dritto dei pantaloni; ma sfila una geometria che da rigorosa muta ed evolve nei volumi aiutati dagli espedienti sartoriali, così che le linee rette diventano in profili tondi dei volumi gonfi dei k-way trasformisti in cappotto e mantello, dei bomber e delle felpe che cambiano la scala delle proporzioni e diventano capispalla.
Il metodo da seguire è il principio dell’accumulo: strati composti con saggezza, bilanciando ogni dimensione per lasciare spazio espressivo anche alla forza della palette cromatica: che dalla gentilezza delle tonalità neutre sale d tono e di brillantezza, fino ad elettrificare i classici basici con shot di fuxia, arancio denso, giallo intenso e blu vibrante.