Maria Luisa Frisa ci racconta ‘Una nuova moda italiana’

In libreria dagli inizi di marzo per la collana Mode di Marsilio e Fondazione Pitti Discovery, il libro ‘Una nuova moda italiana’ di Maria Luisa Frisa è una riflessione critica sulla moda italiana in corso che cerca di individuare l’attuale generazione di fashion designer italiani: un gruppo eterogeneo, un movimento ricco e articolato caratterizzato da un diverso e nuovo modo di lavorare. Chi segue questo blog sa bene quanto io sia un grande ammiratore di Maria Luisa, tanto che c’è una abitudine che si ripete ogni volta che la incontro, quella di fotografarle i particolari di stile, dai bracciali alle spille, passando per le borse, sempre meravigliosi. Ma al di là di questo piccolo gioco, a cui gentilmente si sottopone, la Frisa, come mi capita di chiamarla, è un noto fashion curator e il direttore del corso di laurea in Design della moda dell’Università IUAV di Venezia, e con questa sua nuova opera si pone l’obiettivo di definire il ruolo specifico che i designer italiani ricoprono nello scenario internazionale della moda contemporanea, analizza una costellazione di designer, una realtà in movimento difficile da mettere a fuoco. Il libro descrive specifici profili di designer e si avvale di più di ottocento immagini. Un progetto importante, che finalmente sottolinea l’identità di una generazione di creativi che ha lottato, o sta lottando, molto per emergere. Fra i nomi anche alcuni fra quelli che spesso trovate su questo blog, a riprova che i nuovi modi di comunicare la moda, come quelli legati al web appunto, non sempre, e spesso quasi mai, giocano le stesse regole di un sistema troppo ‘old style’ e poco interessante.

Maria Luisa ci racconta ‘Una nuova moda italiana’.

La copertina del libro ‘Una nuova moda italiana’.

 

Come è nata l’idea di questo libro?
Volevo fare un libro che parlasse della moda italiana in corso d’opera e che tracciasse una nuova costellazione di autori rispetto al passato. Che affermasse una nuova identità rispetto a vecchi stereotipi. Un libro che, voglio ricordarlo, esiste anche in edizione inglese con il titolo ‘Italian Fashion Now’.

Outfit Riccardo Tisci per Givenchy p/e 2008

Quali i criteri che hanno portato alla scelta dei nomi presenti? Quali caratteristiche dovevano avere i designer?
Sicuramente il criterio della qualità del lavoro di ciascun designer. Poi, attraverso le diverse strategie creative, mi interessava far capire come ormai i modi di essere all’interno del sistema della moda possono essere molto diversi. Ci sono i direttori creativi come Stefano Pilati o Riccardo Tisci, ma ci sono anche gli indipendenti come Mariavittoria Sargentini o i Boboutic. Ci sono i consulenti come Renato Montagner, Franco Verzì o, ancora, chi come Giambattista Valli è riuscito a fondare la sua etichetta e a sfilare con successo a Parigi. Io ho fatto una scelta, in questo confrontandomi con Angelo Flaccavento, che ha scritto le schede sui diversi autori, ma come ho sempre ribadito sarei felice se questo fosse solo il primo libro di una lunga serie dedicata alla moda italiana del presente.

C’è qualcuno che l’ha stupita piacevolmente? Qualcuno del cui lavoro si è innamorata durante la stesura del libro?
Diciamo che approfondire la conoscenza del lavoro di ciascuno mi ha fatto apprezzare ancora di più la loro poetica. Ma è sicuramente per gli indipendenti che nutro un affetto particolare.

Secondo lei come sono cambiati i designer italiani? Come sono questi nuovi nomi, rispetto al passato? Quali caratteristiche hanno in più e quali, forse, in meno rispetto ai vari Versace, Armani, Ferré?
Bisogna subito dire che è il sistema della moda che è cambiato radicalmente rispetto a quando hanno cominciato a lavorare Armani, Versace, Ferré e tutto il gruppo che ha proiettato nel mondo la moda italiana. Allora era l’inizio di un’avventura in cui era tutto da costruire. Ognuno cercava una sua strada, ci si metteva molto in gioco, si rischiava. Oggi il sistema è cambiato radicalmente, ma spesso si continua ad agire come se fossimo ancora negli anni ottanta. È questo l’errore principale.

Quale il più grande pregio e il più grande difetto di questa nuova generazione di designer?
Forse il pregio più grande è quello di essere consapevoli di che cosa vuol dire fare moda oggi in Italia e di aver approfondito quelle che sono le qualità dello stile italiano. Il difetto invece è quello di continuare a muoversi dentro un sistema vecchio, che pare incapace di rinnovarsi, senza ribellarsi e dare valore a progetti antagonisti.

Gabriele Colangelo collezione a/i 2008-2009

E se dovesse fare un confronto fra questa generazione di creativi italiani e la stessa generazione di designer esteri? Quali le differenze?
Le differenze vengono dalla maggiore attenzione che all’estero viene data alle nuove generazioni dei fashion designer. Questo accade fin dalla cura che c’è, e penso alle scuole inglesi o olandesi, per la formazione dei creativi. Un sistema molto ben consolidato che individua, promuove e aiuta i talenti. Questo costruisce fin da subito non solo la consapevolezza del proprio lavoro, ma spinge anche ciascuno di loro a misurarsi con coraggio con le grandi sfide.
I nostri designer devono lottare per guadagnare spazi minimi, penso alla settimana della moda a Milano o al sistema delle riviste, questo crea insicurezza e una certa frustrazione che non aiuta per niente.
A volte sembrano impauriti e forse lamentosi, spesso non sono abituati a parlare del proprio lavoro in pubblico, ma diciamo la verità è veramente molto poco quello che viene fatto rispetto a quello che accade all’estero.

Spesso da più parti si sono alzate lamentele sul fatto che non ci sia un reale e concreto aiuto per i giovani designer. Pensa che oggi questa sia una critica figlia dell’attitudine italica alla lamentela o effettivamente si potrebbe fare di più?
C’è sicuramente molto lavoro da fare. In particolare a livello di formazione universitaria, un aspetto su cui in Italia siamo particolarmente indietro. Non è un caso che mi sia impegnata direttamente in questo campo: da sei anni dirigo il corso di laurea in Design della moda, all’interno della Facoltà di design e arti dell’Università IUAV di Venezia. I nostri studenti sono chiamati a confrontarsi con la moda in quanto disciplina che tiene insieme il saper fare e la riflessione critica. Formare in questo modo i nostri giovani fashion designer li aiuta a proiettarsi nel sistema moda internazionale, a rapportarsi e a entrare direttamente in competizione con gli altri giovani provenienti dalle scuole di moda di tutto il mondo.

Immagine relativa alla collezione di Fabio Quaranta a/i 2011-2012

So che in passato è stata molto critica rispetto al concetto di Made In Italy. Ha cambiato opinione dopo aver scritto questo libro?
Sono stata e sono molto critica con l’etichetta Made in Italy che oggi credo non abbia più senso. È legata a un momento storico ben preciso, quello a cavallo tra due decenni, gli anni settanta e gli anni ottanta, che ne hanno visto l’affermazione internazionale. È un sistema superato e ha fatto bene Miuccia Prada a lanciare la provocazione del ‘Made in’, ironizzando sull’impossibilità di affermare oggi un’autenticità italiana sulla base della provenienza dei materiali e della produzione, cercando piuttosto di ricondurre tutto al concept, all’idea e, più in generale, alla qualità del progetto di moda portato avanti dal marchio. Ora sarebbe sicuramente più giusto riferirsi all’Italia come officina creativa.